Aleggia, in queste convulse giornate di crisi sui diversi media, la domanda circa il rapporto fra la figura del presidente del consiglio incaricato Mario Draghi e la Chiesa italiana. Ci sono quanti sottolineano la compatibilità fra le vedute di ambo le parti, evocando ad esempio la formazione della persona nel Collegio Massimo dei gesuiti di Roma, la partecipazione al meeting di Rimini, la nomina a membro della Pontificia Accademia delle Scienze e la laurea honoris causa conferitagli dall’Università cattolica. Qualche riflessione teo-logica al riguardo non sarà fuori luogo, sia per chi si appresta a governare il Paese come per chi si riconosce nella forma cattolica della fede cristiana, che la Chiesa annuncia, celebra e vive nell’esercizio della solidarietà.
Nessuno, se non Dio stesso, può e deve giudicare la fede delle persone. Ricordo che in alcune versioni del canone quando ricordiamo i defunti, diciamo “dei quali Tu solo hai conosciuto la fede” (preghiera eucaristica IV). Ciò doverosamente premesso non bisogna dimenticare che nessun programma politico sarà mai perfettamente compatibile col Vangelo, il cui messaggio eccede sempre le nostre formulazioni e i nostri buoni propositi. In questo senso la Chiesa sarà sempre chiamata a svolgere un ruolo critico-profetico nei confronti dei governi e degli stati e di chi ne detiene la responsabilità in prima persona. Sembra dunque quantomeno problematico, almeno il titolo, se non il contenuto di un articolo apparso su Domani di oggi 5 febbraio (p. 8): “Dopo la stagione del sostegno vaticano a Conte la Chiesa ora elogia Draghi. Ma la sua visione si sposa con quella di Francesco?”. E questo anche perché nel corpo del pezzo si riconoscono le prese di distanza da scelte del precedente governo “non compatibili” con la visione evangelica della Chiesa, chiamata a difendere, non solo le istituzioni educative cattoliche o l’insegnamento della religione, ma soprattutto i valori radicati nella fede quali la giustizia sociale, la vita, soprattutto nella sua fragilità, la famiglia, l’accoglienza ospitale… La vigilanza profetica della comunità credente, e non si tratta solo dell’episcopato o del Vaticano, non dovrà mai venir meno, nel rispetto della laicità, fondata sul detto di Gesù: “Restituite a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” (Mc 12,17). E la buona notizia è che Cesare non è un dio, come anche sembra solo pittoresca la formula del deus ex machina, evocata in questi giorni rispetto alla designazione di Draghi. Si trattava, infatti, di concezioni pagane, che i cristiani sono chiamati a respingere sempre e ovunque.
Non sarà neppure fuori luogo in questo momento critico richiamare l’espressione paolina: “non vi è autorità, se non da Dio” (Rm 13,1). E la traduzione di ἐξουσία con “autorità” piuttosto che con “potere” (come suggerirebbe il latino omnis potestas a Deo), è decisamente più appropriata, anche perché, come cantava Fabrizio De Andrè: “non ci sono poteri buoni”. Il contesto immediato della frase di Paolo detta un’interpretazione che richiama non tanto i cristiani al rispetto dell’autorità legittimamente costituita, piuttosto tende a rassicurare il potere romano di allora del fatto che i credenti in Cristo non sono dei pericolosi sovversivi terroristi e quindi che non deve essere temuto o perseguitato il cristianesimo. Ma, d’altra parte, non possiamo non ritenere significativa l’espressione neotestamentaria per i potenti del mondo e anche per chi governa la Chiesa, che non devono mai dimenticare che la loro autorità, se autentica, non proviene da loro stessi, ma dal Signore del cielo e della terra. E quindi sono chiamati a relativizzare il loro compito e le loro prerogative. Ricordo con commozione il rito della candela che veniva spenta dinanzi al papa, nel momento in cui si accingeva ad iniziare il suo mandato. Gesto accompagnato dall’espressione sic transit gloria mundi! (“così passa la gloria del mondo!”).
Né possiamo dimenticare che la formazione in un collegio dei Gesuiti non è certo garanzia di fedeltà al Vangelo. Ricordo un’espressione a riguardo del beato Antonio Rosmini, in una famosa lettera ad Alessandro Manzoni, del 1843, “[...] Le confesso, che io reputo lo spirito di razionalismo e di comunismo (perdoni una parola sì nuova) avere avuto un’influenza estesissima anche a formare quella università, che era la rivale de' Collegi e quel popolo che ne fu il distruttore: l'attitudine dei Collegi, e l'educazione pia-razionalistica che vi si dava, provocava una tremenda opposizione”. Fu così che comparve sulla scena un Voltaire, “gran collegiale anch'egli”, appartenente alla schiera di coloro che, “confidenti all’eccesso nelle forze della natura umana, senza solidi principj di religione, che non si possono trovare fuori della semplicità, dell’umiltà, della povertà, della croce di N[ostro] S[ignore] G[esù] C[risto [...]; si misero a correre dove la baldanza che avevano infusa nell’animo li portava: la ragione, la filosofia, la libertà, la riforma di tutto il mondo furono i loro idoli. Ma i maestri di Collegio condannarono il loro ardire: perché secondo i maestri di Collegio dovevano essere razionalisti, ma nello stesso tempo buoni religiosi”. Insomma, tanti nemici della Chiesa si sono formati nelle istituzioni cattoliche, senza nulla togliere ai loro meriti e alla loro funzione educativa, perché l’accoglienza credenti passa sempre attraverso la libertà delle persone e non può essere automaticamente inculcata da nessuno. La comunità dei cristiani conserva la propria libertà, generata dalla fede (così come ha ribadito il presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), il cardinale Gualtiero Bassetti, nell’ultimo consiglio permanente), nell’essere pungolo dei singoli e della società con atteggiamento di autentica parresia verso tutti.